OMELIA XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Anno C

LETTURE: Sir 35, 15-17.20-22 Sal 33; 2 Tm 4,6-8.16-18; Lc 18, 9-14

La fede, dicevamo domenica scorsa, ha come prova del nove la preghiera. Il pubblicano della parabola, è un esempio concreto: con chiara coscienza espressa nell’atteggiamento, egli innalza il grido della propria nullità e il desiderio di possedere la propria consistenza: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.

La propria nullità offerta a Colui che è la propria consistenza: ecco i due termini di una

Domenica scorsa, sottolineavamo come la società moderna affermi la grandezza dell’uomo ponendola nel suo “io”, nella sua intelligenza (illuminismo), e nella sua capacità di trasformare le cose (scientismo), per questo “non può pregare”, al massimo esaltarsi dell’opera delle sue mani.

La preghiera del Fariseo, è l’atteggiamento di chi professa una religione, realtà in cui si devono compiere degli atti per “sentirsi a posto”, dove l’amore, l’abbandono, la fede in un Dio che mi fa, si trasforma in una autocelebrazione, dove la lettera della legge è praticata semplicemente per affermare la propria bravura addirittura di fronte a Dio stesso, che per questo deve gradirmi e benedirmi.

L’atteggiamento di cui sopra non è purtroppo lontano da chi ha ridotto la fede cristiana ad una religione: si misura il rapporto con Dio dall’obbedienza ad alcuni precetti, (io non rubo, io non uccido, io non vado con le donne degli altri…) o  dall’espletare alcuni riti, (battesimo, Cresima, prima Comunione….  Matrimonio, Funerali religiosi…) e queto più per un tradizionalismo di facciata, che per convinzione. I segni dell’amore ridotti a cose da fare, perché tutti fan così, perdendone completamente di vista il contenuto ultimo e, infine, pure vantandosene, proclamandosi “bravi” più degli altri perché queste cose loro si, le fanno ancora, mentre gli altri, “loro si cattivi”, neppure più le tengono in considerazione… Paradosso di un uomo, che inconsciamente vuol dipendere ancora di Dio a parole, (il cosi detto senso religioso presente per natura in ogni creatura)  ma da un dio costruito dalle proprie mani, che mette a posto  le loro coscienze, ma non fa crescere l’umano che c’è in loro. (“Se Dio c’è non c’entra con la vita)

“Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». Ancora un paradosso del Cristianesimo! Diventa giusto, realizzato chi dipende, invece si autodistrugge chi crede di avere in sé la forza per essere uomo e, drammaticamente, se ne vanta. (L’uomo che non deve chiedere mai!) Chi dipende è alimentato dalla forza dell’amore, l’unica realtà che genera, gli altri al contrario si appoggiano su ciò che nell’uomo è piccolo, limitato e destinato a finire.  Tutta la vera esperienza Cristiana vive guardando a Cristo: Obbediente al Padre sino alla morte. Segnato dall’amore di questo rapporto, la Resurrezione diventa il sigillo di questo criterio, perché solo l’Amore resta per sempre. Tutto ciò che non è Amore, al contrario, finisce e per sempre. Un esempio lo troviamo nel bellissimo versetto della lettera odierna di san Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.”

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