OMELIA XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

Anno C   LETTURE: 2 Mac 7, 1-2. 9-14; Sal 16; 2 Ts 2,16-3,5; Lc 20, 27-38

 

A conclusione dell’ottavario dei “morti” ecco la liturgia odierna offrirci una grande catechesi sulla risurrezione, perché il nostro Dio è  “Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui”.

“Questa vita”, noi cristiani, la riconosciamo come tempo di preparazione  alla  “vera vita”, come tempo di scelta del tipo di vita che riteniamo importante (Dio ha voluto che fossimo liberi di scegliere) I doni che riceviamo, sono “strumenti” per un aiuto concreto a questo lavoro.

 

Significativa la risposta di Gesù ai sadducei che tentano di metterlo in imbarazzo con un esempio contemplato dalla legge mosaica ma riportato all’assurdo:  “i Figli giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio”  Se nella vita terrena si erano sposati  lo erano per “essere l’uno l’aiuto corrispondente all’altro” per raggiungere questa meta. Una volta che la meta è raggiunta  l’aiuto indispensabile dato, non è più necessario. Saremo in una condizione nuova, di gratitudine reciproca, e insieme per Dio,  per quanto si è stato l’uno per l’altro, ma ovviamente, non più come aiuto.

 

Ecco perché è stolto attaccarsi “ai mezzi” a tal punto da dimenticarne i “fini”.

Quanto questa realtà “possessiva” è presente nel nostro quotidiano, a tal punto da arrivare a dimenticare questa elementare affermazione,  lo dimostra il nostro attaccamento  morboso a tutto quello che ci è dato, censurando persino l’evidenza. Quando muori, è talmente chiaro, che tutto ciò che hai ricevuto è strumento che, come dice la sapienza popolare, “non puoi portarti nulla con te”.

Moglie, marito, figli, denaro, capacità di ogni genere, titoli accademici, posizioni conquistate, onori ricevuti ….   O tutto come “mezzo”, o, al contrario tutto come intralcio, se non posto bene, nella costruzione della vita.

 

Queste ultime affermazioni chiariscono e confermano la testimonianza dei fratelli Maccabei uniti alla loro madre, anzi da essa sostenuti, (quale grande educatrice …) a non cedere all’uso dei propri sensi al “criterio” del mondo, ma a saperli “sacrificare” per affermare che Dio è tutto, sino al martirio.  Il martirio infatti è la testimonianza suprema che tutto ciò che abbiamo ricevuto come strumento, quando diventa intralcio ad arrivare a Dio, è meglio perderlo che usarlo male: persino la propria esistenza corporea.  Quando si ha in sé la certezza del fine buone verso cui si è in cammino, si ha anche la certezza che Dio “ non lascerà cadere neppure un capello del vostro capo”, ma “trasfigurerà tutto”:  «Dal Cielo ho ricevuto  queste membra e per l’obbedienza alle sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo».

 

Quale grande testimonianza dai nostri martiri di ieri e di oggi. Guardandoli non possiamo accampare scuse, ma solo confessare umilmente la nostra pusillanimità, e gridare con umiltà la nostra speranza, quella che il nostro cuore comprenda che “ci hai fatto per Te o Signore e il nostro cuore è inquieto se non riposa in te” (Sant’Agostino). Se ogni cosa non è per Te! Se ogni cosa non è per arrivare a Te

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